Psicosomatica
La Psicoanalisi e gli Affetti
Cinzia Carroccio
Sappiamo bene come gli studi di medicina generale siano sempre più affollati di pazienti che lamentano sintomi imprecisi, malattie e sofferenze fisiche non ben inquadrabili, oppure un allarme, una persistente paura di ammalarsi. Anche agli psicoanalisti, del resto, capita spesso che il Paziente nella stanza d’analisi abbia di queste paure e che parli quasi sempre e soltanto di sintomi fisici. Ma quando questo avviene, quando i pazienti afflitti da problemi «psicosomatici» vengono a chiederci aiuto, a sollecitarne l’ascolto più profondo, noi sappiamo che abbiamo un compito lungo e complesso: l’ascolto degli affetti. Questo può essere richiesto in qualsiasi modo, ma frequentemente avviene proprio attraverso una richiesta di risoluzione di sintomi somatici, che appaiono in maniera sorprendente, cambiano in maniera imprevedibile oppure anche resistono al trattamento farmacologico. Oggi è necessario sempre di più un dialogo tra le diverse professioni che si occupano della sintomatologia psicofisica che «ritorna», nonostante tutta la buona volontà del curante, qual è per esempio il Medico di Famiglia. Anche gli psicoanalisti sono medici di famiglia, della famiglia interna dei pazienti, di quella che hanno dentro, che si vivono grazie alle loro esperienze primarie – le dinamiche dell’infanzia in cui non si ha capacità di memoria mature - e che li rendono quello che sono, che ci rendono quello che siamo. Queste famiglie interne sono costituite da elementi carichi di affetto: ricordi parziali, idee, fantasie, frammenti di immagini, emozioni. Tali elementi sono dinamicamente attivi nell’inconscio, si mescolano, si «scindono» in frammenti e si «proiettano» altrove, oppure si alleano, o anche si inibiscono entrando in conflitto tra di loro. I risultati di questi movimenti interni, quando patologici, vengono espressi in (minima) parte a parole, più spesso con azioni o con sintomi. A noi l’ascolto. E non certamente risposte semplicistiche o consolanti, che i pazienti talvolta cercano per un sollievo temporaneo dalla sofferenza. Quando la cura generica non sortisce effetti soddisfacenti, proprio a noi psicoanalisti, «MEDICI DI FAMIGLIE», compete l’altro tipo di cura, quella dell’individuo e del suo ambiente interno, che nel suo complesso è anche una CURA del SOCIALE
«Dopo il declino dei Lascuda si formarono due fazioni guidate da professionisti, dominavano i medici, ché allora diversa era la professione del medico, a Regalpietra dico; questa professione non poteva esercitarla che un benestante, il medico si pagava a Natale col regalo del cappone, quindi sicura anche nel senso elettorale era la clientela. Saggiamente i medici non davano che chinino e olio di ricino, consigliavano il soggiorno in campagna agli amici e «sciroppo di coltre» agli infreddoliti; chi stava per andarsene veniva gratificato di una iniezione di canfora. I regalpetresi benedicono l’anima di quei medici – se era destino che il malato doveva morire, almeno la famiglia non si rovinava a medicine e radiografie – i medici di oggi invece scrivono ricette che non finiscono mai, subito chiedono analisi e radiografie; e prendono cinquecento lire per una visita. Allora i medici venivano chiamati persino a consiglio per decidere se un partito matrimoniale , su un testamento, una compra, un viaggio; parte di tutte le famiglie erano.» (Leonardo Sciascia, Le parrocchie di Regalpietra, Opere 1956-1971, Classici Bompiani, Milano, 2000, pag. 29)
Il bel tempo che fu, in cui la dimensione degli affetti era garante dei rapporti sociali grazie alla fiducia che suscitava la cura medica, considerata sacra e potente, e le persone erano sempre individui e mai numeri. Cambia la Società, cambia la struttura delle istituzioni, si arriva alla iperburocratizzazione della RELAZIONE TERAPEUTICA per cui cambiano gli operatori e gli strumenti della cura….I medici di famiglia non sono più preposti alle LEZIONI DI VITA
«Il corpo è una invenzione della vostra generazione, Lison. Almeno per l’uso che se ne fa e per lo spettacolo che ne viene dato. Ma, sui rapporti che la mente stabilisce con esso e in quanto scatola delle sorprese e distributore di deiezioni, oggi il silenzio è altrettanto fitto che ai miei tempi. […..]. Quanto ai medici (a quando risale la tua ultima visita?), è molto semplice: oggi i medici il corpo non lo toccano più. A loro importa soltanto il puzzle cellulare, il corpo radiografato, ecografato, tomografato, analizzato, il corpo biologico, genetico, molecolare, la fabbrica di anticorpi. Vuoi che ti dica una cosa? Più lo si analizza questo corpo moderno, più lo si esibisce, meno esiste. Annullato, in misura inversamente proporzionale alla sua esposizione….» (Daniel Pennac, Storia di un Corpo, Feltrinelli, Milano, 2012, pag. 10).
Questi appunti fatti dall’autore-paziente al medico e alla medicina, dei rimproveri in realtà, introducono ancora meglio alcuni degli elementi importanti per una riflessioni sulla cura psicosomatica della contemporaneità. Innanzitutto tengo a precisare una esigenza sempre viva della psicoanalisi che, anche nella sua identità istituzionale, si dibatte tra la necessità di mantenere un ambito estremamente protetto per i pazienti, rischiando di farsi estromettere come strumento terapeutico, e l’altrettanto forte esigenza di arrivare a tutti, di essere presente nella offerta di cura ,aggiungendosi alla ricchezza e alla facilità di operatività tecnologica attuale. Le parole di due noti scrittori, sulla loro esperienza della cura, servono con doppia valenza per aprire alla descrizione della attualità della cura degli affetti, che insieme all’inconscio sono materia specifica della tecnologia psicoanalitica e della maestria dell’arte, entrambe alla ricerca della verità che salva. Sciascia e Pennac, l’uno veramente in contatto con il corpo della sicilianità, l’altro capace di essere a contatto con il bambino nell’adulto, mi sembrano assolutamente in sintonia per una riflessione sull’importanza della cura in senso affettivo oltre che tecnologico.
Ed ora la domanda che più spesso mi si rivolge: che tipo di paziente è adatto alla psicoanalisi? È sempre una strana domanda per me, che penso debba essere ovvio che la psicoanalisi è per chi soffre anche fisicamente perché si sente infelice o confuso. Affinché una persona pensi di dover fare analisi per essere3 più felice bisogna che sappia ascoltare il suo corpo in modo diverso, e comprendere quando un sintomo esula dal campo dell’intervento veloce e sbrigativo, fatto esclusivamente di tecnologia anche farmacologica, che l’Istituzione Sanitaria Nazionale spesso privilegia. Bisogna ascoltare e conoscere gli affetti, i propri e quelli dell’altro.
Affetti: passioni, sentimenti, emozioni , dell’individuo, della coppia, del gruppo. La società massificante li mette da parte, la gente però soffre molto la mancanza del loro ascolto e della loro traduzione, al punto che si ammala. Non abbiamo più con il nostro corpo il dialogo quotidiano che questi richiede per la sua vitalità. E a proposito di questa, della dinamicità che dà benessere, ci serve introdurre e chiarire un altro concetto ancora, la pulsione, nel nostro breve excursus per un senso comune, per comprendere meglio di cosa stiamo parlando. La Pulsione, concetto squisitamente psicoanalitico, (che non ha spazio nelle altre discipline e scienze, quali la filosofia e la psicologia, la neurologia e la psichiatria) è per Freud «il rappresentante psichico degli stimoli che traggono origine dall’interno del corpo e pervengono alla psiche, come una misura delle operazioni che vengono richieste alla sfera psichica in forza della sua connessione con quella corporea» (Freud, Pulsioni e loro destini, 1915, pag 17, OSF, vol.VIII, Bollati Boringhieri, Torino, 1998).
Da questa precisazione, tutt’ora valida e sorprendentemente innovativa, la consapevolezza della presenza di una forza dinamica, di una spinta, che è anche una misura dell’attività psicofisica dell’organismo. Gli affetti sono derivati pulsionali, espressioni, cioè della quantità della forza pulsionale del corpo che cerca una adeguata espressione, una rappresentazione. Possono essere piacevoli o sgradevoli e sono distinguibili, come ho anticipato, in tre aspetti prevalenti : le passioni (dell’individuo e nell’individuo), i sentimenti (della coppia e nella coppia), le emozioni (del gruppo e nel gruppo). Oltre alla distinzione in funzione della esperienza del piacere/dispiacere esiste anche una distinzione in funzione della patologia:
– è patologico l’eccesso di passione nell’Individuo che porta sino al fanatismo estremizzato o la sua diminuzione sino all’apatia;
– è patologica la difficoltà, il blocco nell’esperire e nel riconoscere i sentimenti che di solito si esprimono sottoforma di coppie di opposti (amore/odio, invidia/gratitudine, conoscenza/attacco al pensiero), in una vasta gamma di intrecci qualitativi e quantitativi ogni volta diversi; le inibizioni nei sentimenti o la presenza di sentimenti polarizzati in una sola dimensione comportano patologie fisiche;
– è patologica la presenza nel gruppo di emozioni talmente dissonanti e/o amplificate da creare una condizione cronica di panico, di blocco del libero movimento e della iniziativa. A lungo andare queste inibizioni comportano sofferenze negli individui.
Tutte le espressioni di patologia descritte sono oggetto di cura dell’analisi, individuale oppure di gruppo, quest’ultima nei casi in cui, come nelle condizioni fortemente emotive, si altera la «gruppalità» interna della singola persona. Attualmente viviamo in una condizione di pandemia psicosomatica, tutto tende a divenire corporeo perché si salta il mentale, per cui succede spesso che la persona che soffre di una condizione di disagio affettivo ricerchi le cure del medico per la presenza di alterazioni somatiche, quali un innalzamento dei valori pressori o disfunzioni del tratto digerente, cioè di un primo livello generalizzato, della espressività somatica del profondo…..
E ora ripropongo la domanda: quale paziente va dall’analista? Quale paziente nella sala d’attesa di un medico «di base» sarebbe più sereno se sapesse che i suoi sintomi non necessariamente devono diventare una cronicizzazione di sofferenza, ma l’occasione per rigenerarsi, per rimettere in moto quello che in lui c’è di bloccato? Sicuramente ci verranno in mente persone vicine a noi che soffrono dell’impossibilità di vivere con pienezza la loro vita perché hanno paure, dolori fisici, sintomi più o meno intensi del corpo, insonnia, problemi ad alimentarsi, sfumate ossessioni, tendenza ad ammalarsi ripetutamente…..la causa spesso è una problematica affettiva acuta (vedi un trauma, un lutto) oppure cronica (l’emigrazione, un cambio di status, un lavoro insoddisfacente, una storia sentimentale che non va bene). Altre volte questa associazione ad un trauma non si può fare e nonostante tutto la persona soffre, è infelice o disperata e lo esprime con la comparsa di una malattia.
Quando è in causa la quota inespressa degli affetti, se il soma non dialoga attraverso psiche ci si ammala. Lo sappiamo, è un dato implicito e abbiamo un usuale concetto-contenitore, lo «stress», che però non dà nessuna idea per risolvere tale problema, anzi lo appiattisce a fatto incontrovertibile e tipico della società attuale, da accettare acriticamente. Il progredire della tecnologia e l’uso che ne facciamo, trascurando spesso i ritmi, i limiti e le possibilità tipicamente biologiche, ci instrada alla rinuncia al lavoro quotidiano nel suo ruolo strutturante per dare ordine agli eventi e contenere i traumi, e ci fa perdere conquiste già acquisite nel lavoro di maturazione e di espressione degli affetti, rendendoci maggiormente soggetti ad ammalarci. Questa difficile transizione verso una modernità impersonale sta lasciando progredire le patologie psicosomatiche in cui il corpo parla perché la mente tace.
La psicoanalisi rimane lo strumento migliore per affrontare e risolvere le problematiche di questa endemica inibizione affettiva. Essa infatti offre due strumenti di cura per i pazienti, il lettino e il gruppo, per accogliere i problemi affettivi individuali e gruppali, e si offre per occuparsi e trattare anche le dinamiche patologiche lavorative, dell’individuo nel gruppo e del gruppo verso l’individuo, nelle situazioni in cui è evidente un blocco della possibilità di fruire liberamente delle proprie potenzialità. La comprensione e l’espressione degli affetti, infatti, può essere inibita a livello dell’individuo nel rapporto con se stesso, o con famiglia, oppure nella coppia, o nei gruppi o nella società per un insano bisogno di velocità e superficialità che - fantastichiamo - ci debba far superare fatiche e dolori senza troppo impegno. La «Società dei Simpatici», di chi «Non deve chiedere mai», dei «Rottamatori» e quanto altro ci viene propinato come esempio di modernità, non consente il tempo della costruzione del senso degli affetti. Questi allora vengono cancellati o negati, causando livelli di angoscia, di sofferenza generalizzata. Ma gli affetti non sono problemi, sono risorse e come tali devono essere curati. A questo punto l’analista interviene a puntualizzare nuovamente che esiste il mondo infinito dell’inconscio, che può essere conosciuto solo in forme che necessitano di essere interpretate: sogni, lapsus, atti mancati, dimenticanze, sintomi psichici. L’angoscia senza nome è linguaggio comune, è esperienza del paziente, del medico e dell’analista, ma è dell’analista la faticosa ricerca delle cause di questo affetto e delle inibizioni che possono esserne causa, oltre alla valorizzazione delle motivazioni inconsce attraverso la tecnica che l’esperienza analitica ha messo a punto. Per quanto riguarda la situazione degli affetti che si manifestano nelle condizioni di gruppalità, anche queste sono analizzabili , sia nella analisi individuale che in quella di gruppo.
La presa in carico del mondo interno sofferente di cui si sa molto poco, essendo in buona parte inconscio, richiede che si crei l’ambiente adatto -nei tempi e nei modi- per lasciare che questi elementi «altri» emergano e siano curati. Il nostro senso del tempo è ammalato: la fretta, tranne nei casi in cui ci siano pericoli di vita immediata, non è una buona consigliera né una buona cura. Il nostro senso dello spazio è confuso: abbiamo impegni che ci portano dappertutto e trascuriamo l’importanza di un ritmico ritorno ai nostri spazi dell’intimità e dell’accoglienza. D’altro canto la sofferenza psicologica, come sappiamo, si può esprimere con comportamenti devianti rispetto ai bisogni primari: anoressia, bulimia, tossicodipendenza, alcolismo, comportamenti antisociali; altre volte invece deve essere ricercata tra le maglie di un apparente disturbo «essenziale» di un apparato: l’ipertensione arteriosa resistente, l’eczema che ritorna nonostante le terapie farmacologiche, il disturbo della digestione che non ha riscontri strumentali; altre volte ancora i campanelli d’allarme sono un’insonnia senza motivo, una stanchezza generalizzata, una propensione ad ammalarsi frequentemente di forme influenzali, di allergie alimentare; e non bisogna trascurare la perdita di vitalità e di interesse per le relazioni, per lo studio, per il lavoro con associati sintomi fisici. La psicoanalisi, notoriamente terapia di elezione per quanto riguarda isteria, depressione, attacchi di panico, fobie, ossessioni, perversioni, disturbi della sfera sessuale, patologie nelle quali l’esistenza di un Inconscio che prende il sopravvento è innegabile, lo è anche per quanto riguarda la maggior parte delle malattie «psicosomatiche» di apparato e di organo, che in ogni caso si giovano moltissimo del semplice sostegno psicologico, figuriamoci di una analisi.
Il metodo psicoanalitico (sedute frequenti con orario fisso, che non vengono annullate anche se il paziente non può esserci per qualche motivo) fornisce un forte elemento «altro» rispetto alle cose del quotidiano da inseguire. Si tratta di una istituzione tecnica che si offre come sestante (il terapeuta nella sua ora è lì, dentro la stanza e non se ne va, «tiene» lo spazio-tempo). Questo aspetto della cura non può essere pensato se non da un analista: i tempi dello psichesoma, l’unità inscindibile dell’uomo, includenti la vastità e la potenza dell’inconscio, egli stesso li ha ripercorsi attraverso la sua analisi, e così ha preso consapevolezza che sono sempre gli stessi, che l’evoluzione di bios è lenta, non c’è tecnologia che la velocizzi. La mente spesso fatica a sostenere le richieste della modernità e la modernità ignora completamente la vera complessità della mente. In atto viviamo in una condizione di regressione, tutta corpo e niente mente, mantenuta nella società attuale, che nasce dalla falsa conquista della velocità a tutti i costi da cui ci sentiamo trascinati. Il battito cardiaco non è più il ritmo basico del nostro vivere….