Ade e Adolescenza
Luciana Mongiovì
Questo lavoro è stato presentato il 22 marzo 2019, presso l’Auditorium dell’Università di Catania, in occasione della giornata di studio “Il Ritorno di Ade”.
Chi è Ade? A questa domanda non possiamo che rispondere che Ade è il dio degli inferi. Pur nondimeno, in quanto dio del cosiddetto “mondo di sotto”, può essere inteso anche come rappresentante di una parte del nostro mondo psichico; la parte più profonda, oscura e perturbante, ciò che chiamiamo Inconscio.
Nel 1922, Freud formula una definizione molto significativa della psicoanalisi, la definisce come «un procedimento per l’indagine di processi psichici cui altrimenti sarebbe pressoché impossibile accedere, un metodo terapeutico (basato su tale indagine) per il trattamento dei disturbi nevrotici, una serie di conoscenze psicologiche, acquisite per questa via, che gradualmente si assommano e convergono in una nuova disciplina scientifica».
Questa tripartizione sottolinea come al centro dell’attenzione del padre della psicoanalisi vi fosse la messa a punto del metodo per la scoperta e lo studio dell’Inconscio, in quanto porzione della vita psichica di ciascuno di noi, estranea a noi stessi eppure, al contempo, estremamente dirompente nella sua forza condizionante della nostra esistenza.
Porre al centro della ricerca scientifica l'Inconscio costituì, all’epoca, la cosiddetta “terza ferita” inflitta al narcisismo umano: se con Copernico l'uomo non era più al centro dell'universo, con Darwin non era creato direttamente da Dio, con la psicoanalisi non era più padrone in casa propria!
Ritorniamo al racconto del mito: dopo la sconfitta del padre Crono, i tre fratelli, Zeus, Poseidone e Ade, tirarono a sorte per spartirsi il mondo; ad Ade toccò il mondo degli inferi e lì visse sempre, eccetto quando incontrò la fanciulla Kore.
Ma quand’è che avviene esattamente quest’incontro?
Il mito ci dice che l’incontro con Ade ha luogo con l’adolescenza o, più precisamente, è proprio a partire dall’incontro con Ade - e col coacervo di aspetti legati a Eros e a Thanatos - attraversando quello che gli psicologi dell’età evolutiva chiamano “lutto evolutivo”, che la fanciulla Kore si trasforma in Persefone, un’adolescente con un “corpo sessuato” (Laufer 2004).
Talora si parla del corpo e della mente come se fossero due entità distinte. Il paziente con cui lavoriamo, e di cui proviamo a prenderci cura, in realtà è unico, è un tutt’uno. E per quanto, per motivi di praticità, ci ritroviamo a volte ad affermare di osservare il corpo o la mente, in realtà non esistono “cose” come il corpo e la psiche quali entità separate.
Quando, ad es., un paziente racconta in seduta che ha avuto una nottata disturbata, che ha faticato a dormire, voltandosi e rivoltandosi nel letto, e poi racconta di aver fatto un brutto sogno, dove localizziamo - se così vogliamo dire - il suo disagio? L’origine del disagio è fisica oppure è ciò che chiamiamo mentale?
Se, allora, sussiste un rapporto di consustanzialità tra il corpo e la mente, nel senso che dove c’è il corpo c’è pure la mente e viceversa, occorre pensare che, così come esiste una ereditarietà normata dalle leggi di Mendel, esisterà anche una ereditarietà mentale. E da psicoanalisti abbiamo il compito di considerare quali siano le regole della ereditarietà della mente (Bion 2011).
Ma ritorniamo di nuovo all’incontro con Ade. Si tratta di un evento dalla portata potentemente trasformativa dell’esperienza psichica, un cambiamento catastrofico (Bion 1966), una cesura che divide un “prima” da un “dopo”, un taglio netto che separa la figlia dalla madre, una lacerazione che rompe un registro ontologico e fa precipitare in un mondo “altro”.
Claudio è un paziente adolescente, che vive a distanza di poco tempo alcuni lutti in famiglia. Racconta di aver pianto molto ma ritiene che sia stato, tutto sommato, normale visto che gli ritornavano in mente ricordi delle persone defunte.
Il prof. gli aveva assegnato una poesia e, ogni volta che la rileggeva, gli veniva ancora di più da piangere perché si rispecchiava nelle parole del poeta, che assimilava la felicità a un oggetto molto delicato che, se viene toccato, può sparire o rischia di rompersi.
Dopo aggiunge di sentire un peso nel petto, un’angoscia profonda. Adesso ha paura di tutto e di tutti, ha paura di uscire di casa. Pensa che queste persone sono morte veramente ed è questo che non riesce a capire! Prima non aveva mai pensato alla morte… quei cari sono morti inaspettatamente. Prima di questi lutti sentiva che era tutto bellissimo. Ora, invece, è come se tutto fosse diverso, strano; non riesce a provare la stessa felicità, la stessa leggerezza di prima.
Claudio sta comunicando che qualcosa di fondamentale è cambiato dentro di lui in modo radicale e drastico. Uno scarto, un salto nel buio, dopo il quale più niente sarà “identico” benché “lo stesso” (M’Uzan).
Scrive Pessoa ne Il Libro dell’Inquietudine: «Nostalgia! Ho nostalgia persino di ciò che non è stato niente per me, per l’angoscia della fuga del tempo e la malattia del mistero della vita. Volti che vedevo abitualmente nelle mie strade abituali: se non li vedo più mi rattristo; eppure non mi sono stati niente, se non il simbolo di tutta la vita».
Penso che ciascuno di noi, se si ferma a riflettere un po’, possa rintracciare nei meandri della propria memoria, più intima e silenziosa, il momento in cui ha perso la cosiddetta “ingenuità” fanciullesca, e con un lancio dal precipizio si è ritrovato perso nell’abisso del mistero della vita; lo spleen di boudelairiana memoria.
Nostalgia della fusionalità che contraddistingue la vita intrauterina?
Nostalgia della fusionalità con l’oggetto da cui, tuttavia, occorre differenziarsi psichicamente per poter essere due persone distinte in relazione fra di loro?
Per Bion (2011), «noi siamo indebitamente impressionati dal trauma della nascita».
Ad un certo punto della nostra esistenza – aggiungo io - noi siamo indebitamente impressionati dalla nascita della nostra mente, della nostra capacità di pensare, della consapevolezza di noi stessi. E ritengo che tale acquisizione possa realizzarsi soltanto attraverso l’incontro con Ade, con l’accoglienza nella nostra mente dell’ineluttabilità della morte, della caducità della vita.
D’altra parte, l’adolescenza è un processo violento di cambiamento e molto probabilmente il più sostanziale dopo la nascita.
Bisogna incontrare Ade, attraversare gli inferi oscuri e inquietanti, fare il lutto della perdita dell’onnipotenza infantile, affinché la mente possa nascere davvero e creare.
E di questo incontro terrificante, che l’ha costretto a cambiare profondamente, Claudio racconta. Lì ha conosciuto il dio degli inferi, uno spazio difficilmente definibile, segreto il più delle volte a noi stessi. Un “dentro”, che è un luogo psichico ignoto ed estraneo al suo stesso abitatore. Una transizione, questa, turbolenta e dolorosa, che lo squarcia dentro. Pur non di meno, io considero quello che ho descritto come l’incontro con Ade un passaggio fisiologico, e necessario, della crescita.
Talvolta, invece, capita che l’adolescente guardi il mondo dei vivi con un occhio sano, e il mondo dei morti con quello malato. Ogni perdita è sentita come un’amputazione: tutto ciò che accade nel dove egli vive, accade in lui, dentro. Tutto quanto cessa in ciò che vede, cessa in lui, dentro. Tutto ciò che è stato, quando se ne va, è tolto da dentro di lui.
Il sottosuolo, il mondo interno, pullula allora di demoni terribili e impietosi.
Uno dei compiti evolutivi dell’adolescente è appropriarsi del suo corpo attraverso l’insediamento del nuovo corpo, mutato e sessuato, come oggetto interno (Laufer, 2005).
Nelle situazioni disfunzionali succede, però, che il corpo viene scisso e trattato - o per meglio dire maltrattato - in quanto destinatario del suo carico di odio e aggressività violenta.
È questo il meccanismo alla base del diffuso e crescente fenomeno del self-cutting, ovvero della pratica di infierire sulla pelle infliggendo dolorose ferite con tagli.
Ma cosa c’è alla base di queste ferite cutanee?
Cosa rappresentano queste effrazioni del corpo, della sua superficie che divide - o collega - un dentro e un fuori?
Per A. Nicolò (2009) il taglio assolve la funzione di evacuare un eccesso di tensione: il taglio fisico, in altri termini, arrecando una sensazione di dolore fisico, scaccia via e vince il dolore mentale.
Possiamo pensare, dunque, che il taglio fisico rappresenti l’equivalente concreto del taglio psichico.
Ma cos’è che risulta impensabile?
Qual è il dolore intollerabile per la mente, pena il crollo psicotico?
Nel cimentarmi in una possibile risposta, mi tornano in mente le parole lucide, fredde e rassegnate di Beatrice, un’altra adolescente: «quando Alberto mi ha lasciata, mi sono sentita precipitare in un abisso senza fondo. Non ho sentito niente; non c’ero più io. L’unica cosa che ho sentito di fare è stato quello di tagliarmi. Lo so che non si fa, ma non ne potevo fare a meno».
Qual è, allora, il taglio psichico impensabile, inaccettabile per l’equilibrio psichico?
Io ipotizzo che – per quanto il self-cutting possa assumere e veicolare una miscellanea di significati psichici – alla base di tale sintomatologia vi sia una grave disfunzione del processo di interiorizzazione prima, di dipendenza quindi e di separazione dopo, dall’oggetto, che rende particolarmente ardua e travagliata la riformulazione degli oggetti interni necessaria per l’adolescente.
Ciò che si è perso troppo dolorosamente, o troppo precocemente, così come ciò che in realtà non si è mai avuto appieno, ritorna dall’abisso, dal mondo di sotto, sotto forma di sintomi aggressivi e autodistruttivi che talora, purtroppo, possono essere prodromi di tentativi di suicidio.
Ade è il rappresentante del mondo sotterraneo della psiche, l’Inconscio, costituito dagli aspetti rimossi dalla coscienza perché troppo dolorosi o inaccettabile, ma anche da aspetti latenti, mai del tutto espressi nella vita psichica cosciente.
Con Claudio ho provato a delineare un aspetto fisiologico, quindi “normale”, dell’incontro con Ade.
Con Beatrice ho provato a descrivere un aspetto patologico del ritorno di Ade.
Rimane da descrivere il ritorno di Ade come potenzialità creativa e arricchente.
Greta Thunberg, 16enne, attivista e “icona mondiale”, è diventata un simbolo delle lotte per l’ambiente ed è stata giustamente proposta da alcuni per il Nobel per la Pace.
Partendo da uno sciopero a scuola ogni venerdì, è riuscita con determinazione a coinvolgere giovani di tutto il mondo con cui costituisce, oggi, il movimento di protesta più fresco, energico e trascinante.
Colpisce che la voce dirompente, che dice francamente e senza falsificazioni come stanno le cose nel mondo, sia quella di un’adolescente, che si fa portavoce di una verità a tutti nota ma scomoda, di cui fatichiamo ad assumerci la responsabilità postergando un intervento serio ad libitum.
Quello di cui sono stati derubati i giovani, non è tanto la loro pensione futura, quanto piuttosto la speranza di poter costruire un mondo migliore, la fiducia nel futuro, la fiducia che l’impegno possa produrre risultati efficaci e meritevoli, che la vita ha un sommo valore e va protetta, che la cultura è necessaria per vivere, che lo stare in gruppo e la solidarietà sono più sani e rendono più felici della mera e solitaria competizione, che valga la pena aprire i porti perché siamo tutti ospiti di questo mondo, che valga la pena di credere, lottare e se occorre sacrificarsi per i propri ideali.