Fermare l'orrore
Nicola Nociforo
In questo strano sogno dove il diritto appare indistinto
e il crimine imperante, vogando in gelide acque grigie
ho urtato contro corpi di migranti annegati,
da lì nessun grido, solo le onde incolpevoli
nella loro furia urlavano pietose al lutto
avvolgendo in sudari d’acqua gli insepolti senza nome
e senza identità per i loro volti devastati dai pesci
con la nudità di chi aveva dato tutto pur di sopravvivere
galleggiavano spinti in una deriva oltre la terra d’Africa
con la loro fede come àncora appesa al cuore
e l’isola fu il miraggio che moriva in fondo al mare.
Trasalendo caddi smarrito dal mio canotto
facendomi largo a bracciate tra loro
alcuni con orbite fisse spalancate nel vuoto di un mondo
che avrebbe dovuto accorrere al loro estremo richiamo
altri adolescenti o infanti per la morte
svezzati dall’acqua di mare che cullava i loro sogni interrotti,
e donne che nemmeno in quel nulla trovarono riposo
con la paura d’ansia ancora impressa in fronte
e il viso avvolto da inquieti capelli disciolti
come delicate posidonie strappate dal fondo.
Non fuggivo nuotando verso una personale salvezza
o da uno scandalo che si stava consumando
davanti agli occhi, ma nuotavo sotto una luce
dove sventolava la bandiera dell’ingiustizia
e il male era praticato come sport o arte,
attività non perseguibile, mentre il crimine ascendeva
espandendosi nel silenzio come inavvertito olocausto
del quale l’artefice non aveva ancora un nome
ma assumeva il volto molteplice di un’umanità indifferente.
(Solarino, 2011)
L’orrore degli esseri umani abbandonati in mare al loro destino lambisce le coste di un’Europa cieca e sorda, non solo nei confronti di chi tenta di arrivare, ma inevitabilmente anche di chi sta dentro i suoi confini.
Non è ancora sufficientemente chiaro, infatti, come il conflitto tra i bisogni e le aspirazioni di chi sta dentro e quelli di chi viene da fuori sia solo apparente, o meglio, frutto di un fantasma: il fantasma perturbante del mendico (Corrao, 1992), del doppio bisognoso che è in noi vissuto come minaccia proveniente dall’esterno. Il conflitto, allora, è alimentato e mantenuto allo scopo di negare il fantasma da cui proviene. Negare, cioè, che gli esseri umani che tentano di raggiungere l’Europa evocano la propria umanità in cerca di vita. Da questo punto di vista, quindi, ogni essere umano è quel bambino o quella bambina, quelle donne o quegli uomini imbarcati sulla stessa carretta, nello stesso mare, della stessa, identica vita e ogni tempesta, come ogni naufragio, sarà o evocherà la tempesta ed il naufragio della propria umanità derelitta, delle aspirazioni ad un progetto vitale autonomo e svincolato dalle oppressioni delle tirannie e delle guerre, come dai morsi della fame.
L’Europa rassegnata all’orrore dell’abbandono di altri esseri umani, abiurando la legge sacra del mare che viene dall’avere riconosciuto e sancito nei millenni il diritto di percorrere il mondo alla ricerca di una vita dignitosa e appagante quale elemento di salvaguardia specie-specifica della vita stessa, è quindi un’Europa che sta abbandonando al mare del proprio destino anche i propri concittadini.
È bene essere consapevoli ed auspicabilmente responsabili delle conseguenze dell’indifferenza al destino altrui alla luce delle leggi del nostro funzionamento psichico, che andrebbero riconosciute come si comincia a riconoscere le leggi della fisica nella lotta per la salvaguardia dell’ambiente. L’esercizio dell’indifferenza, infatti, una delle forme dell’odio infantile nei confronti della realtà che incombe (Freud, 1915), è una difesa arcaica dalle richieste della vita stessa che ci chiama ad esistere. Il suo perseverare non può che ritorcersi auto-distruttivamente anche contro coloro che la esercitano, opponendosi questa indifferenza alla possibilità di conoscere la realtà per modificarla, rendendo quindi impossibile lo sviluppo di un sano principio di realtà. Il suo metro, inoltre, è destinato a restringere esponenzialmente il proprio raggio di azione, dal lontano al sempre più vicino. Ovvero, se si accetta che gli europei vengono prima degli stranieri, ci saranno prima o poi degli europei che verranno prima di altri europei e così via fino alla scala organizzata del prima e del dopo all’interno di ogni micro relazione (Revelli, 2020), fino all’indifferenza verso se stessi.
Dovrebbe, a sua volta, essere sempre più chiaro come la relazione di aiuto tra chi sta dentro e chi arriva da fuori, generalmente connotata e criticata per essere “buonista” e sprovveduta, disancorata dalle leggi della realtà, sia invece sempre estremamente realistica, e soprattutto contrassegnata dalla legge della reciprocità. Va, infatti, sfatata la vulgata secondo cui chi sta dentro aiuta chi, in quanto immigrato, viene da fuori, verità solo parziale che contiene in sé il suo reciproco sostanziale generalmente nascosto e cioè: chi viene da fuori aiuta a sua volta chi sta dentro cambiandolo attraverso la propria spinta vitale. Ma è proprio questo che vuole essere negato: la possibilità di cambiare (Romano, 2021).
Si tratterebbe, quindi, di riconoscere un’altra fondamentale legge psichica scoperta dalla psicoanalisi, la legge dell’ambivalenza. Ognuno di noi prova inevitabilmente nei confronti della vita, della realtà e del cambiamento che continuamente ci impone, come nei confronti dello stesso oggetto d’amore, sentimenti contrastanti di attrazione e repulsione. Se l’ambivalenza nei confronti dell’oggetto dei nostri bisogni, come del nostro amore, non viene risolta, non solo la relazione di amore non può dispiegarsi ma non può strutturarsi neanche un sano principio di realtà. Questo vale per qualsiasi relazione, anche per quelle tra i popoli. Spesso, anzi, i conflitti tra i popoli hanno una continuità inconscia con gli odi e gli amori non risolti collegati alle fantasie, agli impulsi ed ai desideri più arcaici. Ce lo insegna il mito di Eteocle e Polinice.
I due figli maschi di Edipo e Giocasta, morti i genitori, stabilirono di alternarsi nel governo di Tebe: un anno avrebbe governato Eteocle e quello successivo Polinice. Ma allo scadere del suo periodo Eteocle non volle lasciare il trono al fratello che tornava per succedergli nel governo della città. La guerra fratricida che ne seguì portò alla morte di entrambi.
Il mito, come sempre, ci aiuta ad uscire dall’impensabilità. La lotta per il possesso di Tebe, infatti, sembra una conseguenza del mancato riconoscimento delle fantasie incestuose di possesso della madre, Giocasta, che a sua volta aveva generato i propri figli realizzando un incesto. Forse, quindi, si muovono potenti moti incestuosi dietro certe idee di possesso della terra che ci ospita quando tendiamo a ritenerla arbitrariamente “nostra”, in opposizione al fantasma dei fratelli che vengono a reclamarla da fuori, vissuti inconsciamente come rivali d’amore per l’antico desiderio di possesso della stessa madre (terra).
Come risolvere, quindi, il problema dell’ambivalenza inconscia nei confronti di tutti gli esseri umani che mentre ci chiedono aiuto possono salvarci dalla nostra indifferenza autodistruttiva, evitando di trattarli solo come miserabili da soccorrere, in conflitto con la nostra miseria, o rivali da respingere in competizione con la nostra bramosia? Come fermare l’orrore dell’abbandono in mare degli esseri umani, che potrebbe trasformarsi in orrore infinito, fino ad abbandonare nel mare della nostra indifferenza ogni residuo di umanità?
Gli antichi popoli del mediterraneo ritenevano sacro lo straniero (Romano, 2012). L’elemento della sacralità, come a noi psicoanalisti ha insegnato Sigmund Freud, detiene in sé i significati opposti di ciò che è contemporaneamente santo e impuro, desiderabile ed esecrabile (Freud, 1912-13, 1934-1938). Per questo ritengo che il sacro sia quanto di più congeniale ad accogliere i sentimenti contrapposti nei confronti dello straniero, come della vita stessa e dell’oggetto di amore, in tutte le loro componenti inevitabilmente familiari ed estranee, desiderabili e odiose.Riconoscere ed accogliere come sacro lo straniero, recuperare la sacralità delle antiche leggi del mare che vietano l’abbandono di altri esseri umani, significherebbe salvarsi dal rischio di farsi sopraffare dalla spinta mortifera al rifiuto del cambiamento, in attesa di elaborare e risolvere le proprie ambivalenze nei confronti dell’oggetto sacro, aprendo così uno spazio per il pensiero.
Pensare per evitare il rischio di auto-mutilarsi, agendo proprio contro coloro che potrebbero essere la nostra stessa salvezza, e per sottrarsi alla fantasia infantile di soluzioni facili e meno che mai drastiche del problema del nostro essere nel mondo.
Ci torna qui in aiuto il mito. I tebani, in effetti, credettero, o vollero credere, di essere stati salvati da Edipo quando trovò la risposta all’enigma. L’eliminazione della Sfinge, però, risolvendo il problema del tributo di morte richiesto alla città, aprì le porte alla realizzazione dell’incesto, e poi all’epidemia di peste.Il resto è più che noto, ma il noto del mito è al tempo stesso, e per fortuna, sempre estraneo e ci aiuta così a pensare che la soluzione del problema non risiede necessariamente nella risposta, per quanto giusta o “efficiente”, ma nel mantenere il rapporto con il potere evocativo, per il pensiero, dello stesso enigma: nel tentare, cioè, per quanto possa apparire complesso e pericoloso, di sostare dinnanzi alla Sfinge, per pensare. La tragedia di Edipo, infatti, trova il suo antefatto negli impulsi infanticidi di suo padre Laio, il quale, prima ancora di concepire e poi tentare di uccidere suo figlio, aveva infranto le regole sacre dell’ospitalità abusando del piccolo Crisippo, che a sua volta si suicidò per quanto subìto.
È perturbante constatare come il mito proponga un accostamento, una congiunzione costante potremmo dire con Bion (Bion, 1973), tra l’attacco ai bambini ed alle regole sacre dell’ospitalità e la peste, l’epidemia che colpisce Tebe in conseguenza del realizzarsi dell’incesto, che nella ferocia di Laio contro i bambini e la sacralità degli ospiti trova il proprio antefatto. Ma se il mito, come dimostrato da Abraham (Abraham, 1909), segue le stesse regole di trasformazione del sogno, ponendosi quindi quale suo equivalente per il pensiero dei popoli, la congiunzione costante potrebbe esprimere una relazione di senso. La peste, in questo caso, ci direbbe di una polis incapace di rendersi consapevole e responsabile della propria ambivalenza nei confronti dei bambini, di un’epidemia di impensabilità (Romano, 2002), quindi, che impedisce di fermare gli impulsi ostili nei confronti degli ospiti sacri per eccellenza.
E in effetti, viene da pensare, in questo mondo afflitto dalla pandemia, coloro che muoiono abbandonati in mare non subiscono la stessa sorte, la stessa tragica morte per soffocamento che uccide attraverso il virus?
E Sfinge, Sphinks, non significa proprio soffocamento?
Forse proprio soffocamento del terrifico pensiero della consapevolezza di sé, del proprio doppio disperato o bramoso di vita imbarcato nella stessa carretta, dello stesso mare, nella stessa identica vita.
Ne consegue che si tratta di fronteggiare la pandemia dell’indifferenza che sta soffocando l’umanità, fermando l’orrore dell’abbandono in mare degli esseri umani, per ritrovare il respiro della pensabilità, offrendolo al futuro sacro di ogni bambino.
Abraham K. (1909), Sogno e mito, Boringhieri, Torino
Bion W. R. (1973), Trasformazioni, Armando, Roma
Corrao F. (1992), Modelli psicoanalitici. Mito, Passione, Memoria, Laterza, Bari
Freud S. (1912-13), Totem e tabù, Boringhieri, Torino
Freud S. (1915), Pulsioni e loro destini, Boringhieri, Torino
Freud S. (1934-38), L’uomo Mosè e la religione monoteista, Boringhieri, Torino
Revelli M. (2020), Umano, Inumano, Postumano: le sfide del presente, Einaudi, Torino
Romano R. (2002), Perché l’impensabilità?, Città Aperta, Troina (EN)
Romano R. (2012), Sacro è lo straniero, re_edizione, Catania
Romano R. (2021), Comunicazione personale
Solarino S. (2011), Il sogno, in Il peso della cenere, Edizioni Novecento, Mascalucia (CT)